La riflessione sulla propria vita e con essa la paura della morte sono e saranno sempre proprie dell’uomo. Nella liturgia di oggi Gesù dice la sua su questo tema. Come cristiani non siamo chiamati a ricercare prove inconfutabili dell’immortalità dell’anima o a vagheggiare di un aldilà idilliaco. La nostra speranza risiede piuttosto nell’amore di Dio per la vita e nella sua imperturbabilità su questo punto. Sta a noi fare della nostra esistenza e della nostra morte un’immagine vivente di risposta positiva al suo amore.
Gesù: fonte e modello di evangelizzazione
Innanzi tutto è notevole il metodo di argomentazione che Gesù usa. Anch’egli si rivolge alla Torah che per i sadducei era l’unica fonte normativa autorevole e ne cita un versetto (cf Luca 20,37; Es 3,6). Gesù, cioè, entra nella mentalità dei suoi interlocutori, nel loro orizzonte, adotta il loro stesso linguaggio e lì dove solo può essere ascoltato e compreso, propone la sua risposta.
Quante volte le comunità ecclesiali oggi si sforzano di fare quest’operazione con i loro interlocutori? Quante volte a chi contesta l’autorità della Scrittura si risponde partendo dalla Scrittura assunta come autorità indiscutibile? Oppure a chi pone domande esistenziali si danno risposte dogmatiche? Oppure a chi pone domande sui contenuti della fede si risponde con la devozione? E così via. L’evangelizzazione non è accondiscendenza verso tutto ciò che s’incontra. Ma l’evangelizzatore deve porsi il problema di trovare i canali di comunicazione, di entrare nell’orizzonte dell’interlocutore, di assumerne il linguaggio e, se è necessario, di sperimentarne altri nuovi, in un mondo in cui si moltiplicano i linguaggi in proporzione all’accrescersi della complessità. Il compito dell’evangelizzatore è trovare le risposte esatte alle domande poste.
L’annuncio del Regno
Pur collocandosi su un terreno accettabile, Gesù non cade nel tranello della «battaglia delle citazioni contrapposte». Afferma la risurrezione a partire da un’altra prospettiva, da Dio stesso. Se Dio è il Dio dei viventi, egli non lascia gli uomini sotto il dominio della morte. La risposta di Gesù muove da una diversa interpretazione di Dio e del rapporto con lui. La sua risposta non svaluta il matrimonio, come se fosse incompatibile con la risurrezione, ma sposta la questione (inquadramento, framing), affermando che nella risurrezione s’instaurano nuove modalità relazionali.
La risurrezione comporta una radicale novità di vita. La vita eterna è vita non in virtù dell’essenza metafisica dell’anima (come direbbe il pensiero greco), ma per la fedeltà di Dio (cf Lc 21,38) che non s’interrompe con la morte. Si aggiunge anche, però, che la vita «futura» (Lc 20,35) è qualitativamente diversa da quella attuale.
La fedeltà al Dio della risurrezione
La risurrezione è al centro del mistero cristiano. Il Dio di Gesù Cristo è il Dio della risurrezione; Gesù Cristo è il Risorto. Credere nel Gesù dei vangeli è credere nel Risorto; è avere la speranza di partecipare alla sua risurrezione, è ancorare a questa speranza anche la fedeltà estrema: il martirio. “Dell’universo ci risusciterà a vita nuova ed eterna”, sentiamo nella prima lettura. Questo testo del II° secolo a.C. ci testimonia che la speranza di una vita eterna al di là della morte non era estranea al popolo d’Israele. Si tratta della scelta di sette giovani fratelli di non sottomettersi alla protervia del potere e di rimanere fedeli al Dio dei loro padri. Cosi la prima lettura è parte di un lungo racconto edificante a proposito della fedeltà alla Legge di alcuni martiri ebrei. Non mangiare carne di maiale non è il centro della loro fede. Farlo, però, sarebbe stato simbolico di un’infedeltà più radicale nel contesto della forzata ellenizzazione imposta da Antioco IV. Il libro dei Maccabei afferma progressivamente la speranza che anima i quattro ragazzi. Il primo afferma il valore della fedeltà (cf 2 Mac 7,2), dicendo così il motivo della resistenza. Il secondo, rivolgendosi al persecutore, proclama la propria fede (cf 2 Mac 7,9). Il terzo annuncia la speranza (cf 2 Mac7, l1) Infine, il quarto proclama la forza motivante della speranza (cf 2 Mac 7,14).
Quali simboli per il nostro tempo?
I simboli hanno sempre avuto importanza. Per i giovani del libro dei Maccabei era la carne di maiale. Per i primi cristiani furono i sacrifici ai simulacri degli dei o alle statue degli imperatori, che significavano riconoscere l’esistenza di altri dei o di altra signoria oltre a quella dell’unico Signore. Oggi la domanda rimane aperta. Quali altri simboli possono rappresentare la nostra fedeltà o infedeltà al Signore, alla testimonianza della nostra fede, alla professione della nostra speranza? Ciascuno avrà occasioni simboliche riguardo ai propri contesti socioculturali, contesti professionali, relazionali. Ma la domanda rimane uguale: quando e come rischiamo di tradire la fede e smentire la risurrezione?
[…] passé nous avons entendu comment la fidélité de Dieu est de toujours à toujours. Aujourd’hui, la liturgie nous invite à méditer sur la fidélité de l’homme qui, […]
J’aimeJ’aime