Questa solennità può avere motivazioni che oggi la comunità cristiana non sente più come primarie. Ciò non impedisce però di cogliere il valore profondo della regalità di Cristo che è un valore universale e perenne.
“Il popolo stava a vedere”
Il quadro che si presenta ai nostri occhi è l’immagine cocente del fallimento. Non è possibile immaginare una fine più terribile. Davanti a quell’uomo, con le braccia e le gambe inchiodate al patibolo, davanti a quell’uomo, torturato dalla sete, lacerato dalle ferite, percorso dadi spasimi dell’agonia, tutti sembrano riversare la loro cattiveria. E quell’uomo sembra del tutto disarmato davanti al grumo di male, di odio e di disprezzo che si scatena contro di lui.
Ci sono le beffe dei capi del popolo, delle autorità religiose, che lo scherniscono. Lui, che ha proclamato di essere l’Inviato di Dio, lui che ha restituito molta gente alla vita, ora non riesce a liberarsi dalla morte che incombe. Ci sono gli insulti dei soldati, avvezzi a riconoscere il potere della forza, la logica delle armi, e quindi divertiti davanti a un «re» del tutto inerme e in balia dei suoi nemici. C’è addirittura il cartello ironico, sopra la sua testa, che reca la ragione di una condanna così terribile e paurosa: Questi ha dichiarato di essere il re dei giudei. C’è addirittura l’ostilità di un compagno di pena, anche lui appeso alla croce, che gli grida tutto il suo disprezzo e la sua riprovazione.
Più che guardare, vedere, occorre contemplare per cogliere il senso della croce.
E tuttavia, proprio in quell’uomo che all’apparenza sembra abbandonato da Dio e dagli uomini, proprio in quell’uomo che sembra schiacciato, calpestato, polverizzato, distrutto, c’è qualcuno che pone la sua fiducia. Uno che riconosce i suoi sbagli: la sua vita non è specchiata. L’ha deturpata lui stesso con azioni meritevoli di castigo. Uno che, nello stesso tempo, ammette di trovarsi davanti a un uomo innocente, che «non ha fatto nulla di male ». Uno che osa credere, al di là di ciò che si vede, che quello sia veramente un «re» e si affida alla sua bontà, alla sua misericordia: «Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
L’intervento del malfattore buono, per antitesi, pone in evidenza il valore della realtà nei confronti dei giudizi nati da una valutazione superficiale, fondata sulla pura apparenza. Nell’apparenza tutti e tre i crocifissi, i due malfattori e Gesù, sono accomunati dalla stessa sentenza e, quindi, dalla probabile stessa colpa (o colpe equivalenti). La realtà, invece, è che i due malfattori sono stati condannati «giustamente», mentre Gesù «non ha fatto nulla di male». In modo sobrio e chiaro, l’affermazione del buon ladrone rileva come Gesù, autoproclamandosi re, non ha fatto nulla di male. Ha detto il vero. E poiché ciò che è vero è giusto, il buon ladrone, come controprova della sua riflessione, si rivolge a Gesù, dicendo: «Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno». Non chiede di essere schiodato ma di essere perdonato e ricordato (Lc 3,42). Ci vuole una grande intimità per essere sulla croce e chiamare Gesù per nome, stabilendo così un rapporto diretto senza negare la propria condizione. Sono le parole del vero credente al quale la sofferenza della croce non ruba la lucidità.
Una regalità che perdona, invita alla gioia in paradiso.
E Gesù proclama il primo santo nella comunità dei suoi discepoli. Gesù risponde con un annuncio di salvezza (Lc 23,43). Il momento estremo della debolezza e dell’impotenza di Gesù è quello in cui massimamente esprime la sua potenza salvifica. La sua croce e il suo dialogo, sono la rivelazione del senso di tutta la sua vita e la sua missione: giungere a quel definitivo annuncio che dal malfattore crocifisso si estende universalmente a tutti gli uomini. Tutti gli uomini, siamo malfattori.
Uomini e donne di religione oppure di fede?
Gli uomini di religione cercano un Dio potente ed elargitore di benefici e non accettano un Dio crocifisso. Gli uomini di fede riconoscono Dio nel volto sfigurato di un crocifisso e ne condividono la sofferenza. Ma questo non basta: ci si potrebbe trasformare in uomini di religione se si continuasse a pensare quello scoprire e quel condividere come merito, e a viverlo come protagonisti. Ci si mantiene uomini di fede solo se in quel crocifisso si vede Dio che annuncia il proprio amore sovrano e libero a tutti gli uomini. Anche a quelli che non lo riconoscono. A tutti, dalla croce, viene estesa la promessa della speranza. La croce è la rivelazione della fedeltà mantenuta di Gesù a Dio, agli uomini, alla sua missione.
Ecco allora che in quel frangente così drammatico, in quello scenario così disumano, quel condannato riceve il biglietto d’ingresso nel paradiso. Lui, colpevole, vi entra per primo insieme all’innocente. Lui, sporcato dal male, vi entra insieme a colui che ha lottato contro il male a mani nude, con la sola forza dell’amore. Lui, che ha infranto la legge, raggiunge la pienezza della gioia grazie a Colui che è venuto per sostituire la legge con la grazia, il giudizio con la misericordia, Colui nel quale abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati. Ci sentiamo allora dire: “oggi sarai con me nel paradiso”.